Il Nordmilano è poliglotta. Culture ­­a confronto

Storie, racconti e progetti di cittadini e istituzioni del territorio che ogni giorno si misurano con plurilinguismo e multiculturalismo


Al polo di Sesto il centro russo dell’Università di Milano: «Una comunità integrata»

È stato aperto grazie all’accordo tra l’Università degli Studi di Milano e la fondazione Russkiy Mir sei anni fa, nel 2013, allo scopo di «sostegno e diffusione della lingua e cultura russa in Italia», il centro russo universitario. «In ambito linguistico – spiega Dario Magnati, collaboratore del centro e docente a contratto di lingua russa – si promuovono una serie di corsi all’interno dell’università, esami di certificazione di lingua russa, il prossimo si svolge il 29 e 30 aprile, e diverse attività culturali: incontri, seminari, la partecipazione a Bookcity con le novità editoriali dell’anno. Nel 2018, ad esempio, in occasione del campionato del mondo, abbiamo organizzato una serie di attività sulla storia del calcio russo e sovietico».
La sede del centro russo si trova all’interno del polo di Mediazione Linguistica di Piazza Montanelli, nella zona di Sesto Marelli. Lì, gli studenti di mediazione coltivano sogni di carriera in aziende import export, in ambito culturale, come traduttori o nelle Ong. Secondo Dario Magnati la comunità russa di Milano è «piuttosto aperta e integrata nel territorio. I figli di immigrati russi seguono la scuola russa il sabato mattina, mentre dal lunedì al venerdì frequentano quelle italiane. C’è quindi il desiderio di mantenere attiva la conoscenza della lingua, fondamentale per il legame con i parenti in Russia, ma anche di integrarsi con il territorio. Si tratta di una comunità già mista in sé, in gran parte formata da matrimoni misti e inserita lavorativamente nel territorio. Lo dimostra anche la forte presenza di studenti madrelingua russi, proprio qui a Mediazione».


Ema Curaj: «Io e le mie sorelle parliamo l’albanese, il bilinguismo è un valore aggiunto»

I genitori di Ema Curaj, 25enne bressese, sono arrivati in Italia da Scutari (in Albania) 22 anni fa. Una storia di immigrazione come migliaia di altre. Un padre operaio, una giovane madre e due bambine: Ema di 3 anni e Marsida di 6. «I miei genitori hanno deciso di mantenere in casa l’uso dell’albanese – spiega Ema – decisione logica, anche perché l’Italiano non era la loro lingua madre e soprattutto mia mamma non lo ha mai potenziato. Per me e mia sorella, l’albanese è stata la prima impronta. Arrivate in Italia e iniziata la scuola, non conoscevamo la lingua. Per Marsida, già in prima elementare, non è stato facilissimo, a me invece è andata più liscia. L’unica cosa con cui avevo problemi erano le doppie: in albanese non esistono. Quando mio padre ha regalato a me e mia sorella l’Abetario, primo libro di ogni bambino albanese, ci siamo rese conto di non essere in grado di leggere tutte le lettere. L’alfabeto albanese ha molti più caratteri rispetto all’italiano, sono 36, quindi alcune lettere vengono espresse con più caratteri, ad esempio: la ‘g’ dolce in albanese non esiste, si esprime con la combinazione di lettere ‘hxh’». Dopo il trasferimento a Bresso, la famiglia Curaj si è allargata ed è arrivata Sabrina, la più piccola delle sorelle. «Sabrina è nata a Milano ed è l’esempio perfetto degli immigrati di seconda generazione – osserva Ema -. Fino ai 3 anni, con i miei genitori parlava albanese e grazie a noi sorelle capiva già l’Italiano. Credo che la decisione di mantenere l’albanese come ‘lingua della casa’ sia assolutamente vincente. È ciò che accomuna il nostro nucleo familiare con cugini e zii che sono emigrati in altri Paesi. Mi mortifica, anzi, non essere in grado di spiegare concetti complessi in albanese. Nel percorso scolastico, il bilinguismo è stato sempre visto come un valore aggiunto». Sulla trasmissione del patrimonio linguistico e di conseguenza culturale, Ema non ha dubbi: «Se avrò dei figli, tramanderò la lingua, appartiene alla mia storia, alla mia quotidianità».


Soad Hassan: «Papà ha insegnato l’italiano ai parenti del Cairo. Ai miei figli però, vorrò tramandare la lingua araba»

Una storia ‘al contrario’ quella di Soad Hassan, mamma italiana e papà egiziano: «Mio padre purtroppo non ha mai insegnato a me e mia sorella l’arabo – racconta la 22enne di Cinisello Balsamo – ma ha deciso di insegnare ai parenti del Cairo, città da cui proviene, l’italiano. In questo modo, i parenti ‘di giù’ sarebbero stati in grado di comunicare agevolmente con mia madre. Sono stata in Egitto due volte all’anno fino a quando avevo 7 anni, poi i miei genitori si sono separati ed economicamente sostenere le spese del viaggio è diventato off limits per noi. I contatti telefonici che avevamo erano più che altro in inglese, con qualche parola di arabo qua e là, e nel frattempo i parenti in Egitto non ci sono più». Da parte di padre, a Soad e sua sorella è rimasta una zia e alcuni cugini, tutti residenti a Cinisello Balsamo. «Sicuramente mi dispiace non aver imparato l’arabo – continua la giovane – che sta diventando una lingua sempre più diffusa e importante. Assieme a mia sorella, abbiamo provato a impararlo qualche tempo fa, ma devo dire che studiarlo da adulti è faticosissimo.». Dal punto di vista culturale, che spesso va di pari passo con il mantenimento della lingua madre, Soad si definisce «italiana al 97 per cento: gli arabi, culturalmente, hanno un carattere meno aperto e caloroso degli italiani e penso di aver in qualche modo assimilato questo lato dalla cultura paterna. I miei cugini, zii e mio padre stesso hanno sempre saputo bene l’italiano grazie al lavoro: tutti ricoprivano un ruolo che prevedeva un contatto con il pubblico e quindi una conoscenza della lingua completa. Dopo trent’anni in Italia, persino mio padre sta perdendo l’uso della sua lingua originaria». Nonostante tutto, Soad tiene molto alla trasmissione dell’arabo: «Se mai avrò dei figli – conclude – farò loro prendere lezioni di arabo. Mi dispiacerebbe troppo che si perdesse questa ‘eredità’, che in un modo o nell’altro fa parte di me e della storia della mia famiglia».


A Sesto San Giovanni si va a scuola di italiano con la Caritas Salesiani «Qui ogni differenza è una ricchezza»

Alla scuola di italiano gestita dal Centro Caritas Salesiani di via Matteotti 415 vengono accolte persone straniere provenienti da più di venti Paesi: i più numerosi sono gli egiziani, i peruviani e i brasiliani, ma anche russi, bengalesi e algerini. Di sera gli adulti, il mercoledì e il venerdì mattina le mamme con i bambini.
«In questa fascia oraria – spiega Laura Amadini, presidente di Caritas Salesiani -, abbiamo pensato a un servizio apposito: mentre le mamme fanno lezione di lingua italiana, i bambini vengono tenuti da alcune volontarie baby sitter. L’obiettivo è valorizzare le differenze linguistiche e culturali di ciascuno, spingendo gli ‘alunni’ a uscire dal proprio guscio, integrarsi con il territorio e sostenersi a vicenda. Chiaramente lavoriamo perché gli alunni e le alunne prendano la certificazione di conoscenza della lingua italiana. I più avvantaggiati nell’apprendimento dell’italiano sono coloro che hanno una lingua madre di base latina, quindi chi parla spagnolo, sudamericano o francese. Per chi parla inglese, arabo o cinese è chiaramente più difficile. Con le classi di livello base ci atteniamo strettamente a un programma linguistico essenziale e imprescindibile, con chi invece ha già più padronanza, ci occupiamo anche di insegnare alcune basi fondamentali di storia, educazione civica e diritto. Molti di loro sanno poco o nulla della storia europea e italiana, e troviamo particolarmente vincente la visione di alcuni film che ripercorrono in maniera ‘romanzata’, alcune vicende storiche. È molto efficace anche l’organizzazione di momenti ‘di festa’, in cui ognuno condivide i cibi del proprio paese di provenienza con gli altri, creando un’occasione di scambio preziosa».