Coronavirus, com’è cambiata la vita dei volontari di primo soccorso

Nicole ha 25 anni, lavora come educatrice e nel tempo libero è responsabile dei volontari alla Sos di Sesto San Giovanni. L’associazione riunisce 130 volontari di primo soccorso «anche se di attivi siamo una settantina», precisa Nicole. Da anni, per 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, la Sos viaggia con le sue ambulanze per le strade del Nordmilano. I volontari sono i primi che entrano in casa dei malati per soccorrerli e trasportarli in ospedale.

Da qualche giorno, l’associazione sestese ha una sirena in più: «Quando è iniziata l’emergenza Coronavirus – racconta Nicole – da Milano ci hanno chiesto di fornire un’autoambulanza che si occupasse solo di malati affetti da Covid-19. Ovviamente abbiamo accettato, non senza paura». Sì, perché nonostante si armino di mascherina, occhiali protettivi, tuta integrale e guanti (gli ormai noti ‘dispositivi di sicurezza’), la paura è una sensazione nuova che è entrata con prepotenza nella vita dei volontari.

«Siamo una di quelle categorie molto esposte al contagio, come i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario». Con la differenza che all’Sos i soccorritori dedicano il loro tempo libero, senza essere pagati. «Ricevo spesso le chiamate dei miei volontari molto impauriti prima di un turno ma alla fine della telefonata non c’è mai stato nessuno che si sia sottratto all’impegno. Tutti continuiamo a fare i turni e cerchiamo di rimanere uniti e mantenere la calma, nonostante sempre più spesso ci troviamo di fronte a scene strazianti». Come quella accaduta mercoledì 25 marzo a Cologno Monzese.

«Quando la squadra è arrivata sul posto della chiamata – racconta Nicole – ha trovato per strada un carro funebre. Salita all’appartamento c’era una bara all’ingresso. Il caposervizio ha chiesto ai due signori di mezza età che li avevano chiamati se non ci fosse stato un errore. Pensava di aver sbagliato appartamento. Invece la bara era lì per il figlio 38enne dei due. Era morto di febbre, con tutti i sintomi del Covid-19 anche se non gli era stato fatto il tampone: era quindi un caso sospetto. I due genitori ci avevano chiamato perché avevano anche loro la febbre, erano terrorizzati».

Anche Nicole ha paura, ma ha anche la determinazione di una donna giovane e riesce a trasmetterla a chi le sta vicino: «La mia famiglia è preoccupata – conclcude – ma ormai si è abituata al fatto che debba uscire, andare in sede a sistemare il materiale o sia a contatto con i malati in questa situazione. Qualcuno deve farlo e io sono grata ai volontari dell’associazione, meritano la stima di tutta